1. Premessa. – 2. La responsabilità civile degli amministratori privi di deleghe: profili generali. – 3. Il ruolo “di garanzia” dei consiglieri privi di deleghe nella giurisprudenza penale. – 4. I profili di responsabilità civile dei consiglieri privi di deleghe che si ingeriscono nella gestione della Società. – 5. I profili di responsabilità penale dei consiglieri privi di deleghe che si ingeriscono nella gestione della Società. – 6. Conclusioni.
di Edoardo Cecchinato - edoardo.cecchinato@studiodepoli.it
1. Premessa
Recentemente, ci è stato chiesto in che misura i consiglieri senza deleghe di una Società per Azioni possano rispondere in caso di interferenza nelle materie attribuite ad un consigliere delegato.
Queste brevi note riassumono i passaggi essenziali del parere reso, cercando di offrire al lettore una panoramica esaustiva sulla giurisprudenza più recente e rilevante in tema di responsabilità degli amministratori privi di deleghe.
2. La responsabilità civile degli amministratori privi di deleghe: profili generali
Al fine di esaminare i diversi profili di responsabilità a cui possono essere soggetti gli amministratori privi di deleghe che si ingeriscano nella gestione della Società dando luogo ad atti di mala gestio o illeciti, pare opportuno muovere da quanto dispone l’art. 2392 cod. civ. in tema di responsabilità degli amministratori verso la Società.
La disposizione citata, al primo comma[1], sancisce la responsabilità solidale dei membri del C.d.A. per gli atti compiuti da uno o più consiglieri che risultino pregiudizievoli per la Società, a meno che questi non siano stati commessi nell’esercizio delle rispettive deleghe. In tal caso, la responsabilità per tali atti non sarà estesa anche ai consiglieri privi di deleghe, a meno che, secondo quanto stabilito dal secondo comma[2], essi non ne fossero a conoscenza e non si siano attivati per impedirne la commissione o porre rimedio agli effetti pregiudizievoli causati da tali atti.
Quanto appena affermato va poi integrato con il dettato dell’ultimo comma dell’art. 2381 cod. civ., che sancisce il cd. “dovere di agire informato” degli amministratori: ai sensi della disposizione citata, infatti, «Gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società».
Pertanto, se da un lato spetta ai consiglieri delegati dare adeguata informazione degli atti compiuti al plenum consiliare e, di conseguenza, a consiglieri non delegati è consentito fare affidamento sulle informazioni ricevute. Dall’altro, a questi ultimi è attribuito il potere di richiedere in sede consiliare ai delegati tutte le informazioni necessarie per comprendere l’operazione descritta; potere di richiedere informazioni che, in realtà, assume i tratti di un vero e proprio dovere, specie nelle ipotesi in cui l’informativa offerta dai delegati appaia poco chiara o manchi del tutto. Infatti, «[a]gli amministratori privi di deleghe è richiesto […] non soltanto di essere passivi destinatari delle informazioni rese sua sponte dall’organo delegato, ma anche di assumere l’iniziativa di richiedere informazioni, in particolare allorché sussistano quei “segnali di pericolo” o “sintomi di patologia”, quali “indici rivelatori” o “campanelli di allarme” del fatto illecito posto in essere – o che sta per essere posto in essere – dagli organi delegati»[3].
Già da queste prime premesse di carattere generale, si può evincere la volontà del legislatore, accolta dalla giurisprudenza, di non “de-responsabilizzare” i consiglieri privi di deleghe ma, anzi, di considerarli quasi un primo presidio della corretta attività gestoria dei delegati. Impostazione, questa, che assume ancor più rilievo nelle realtà societarie complesse o “di settore”, quali quella bancaria[4].
Quanto finora scritto trova conferma nella giurisprudenza della Suprema Corte, la quale ha espressamente stabilito: «gli amministratori (i quali non abbiano operato) rispondono delle conseguenze dannose della condotta di altri amministratori (i quali abbiano operato) soltanto qualora siano a conoscenza di necessari dati di fatto tali da sollecitare il loro intervento, ovvero abbiano omesso di attivarsi per procurarsi gli elementi necessari ad agire informati. Ne discende che, nel contesto normativo attuale, gli amministratori non operativi rispondono per non aver impedito “fatti pregiudizievoli” dei quali abbiano acquisito in positivo conoscenza (anche per effetto delle informazioni ricevute ai sensi dell’art. 2381 c.c., comma 3) ovvero dei quali debbano acquisire conoscenza, di propria iniziativa, ai sensi dell’obbligo posto dall’ultimo comma dell’art. 2381 c.c.»[5].
Pertanto, i consiglieri privi di deleghe risponderanno in sede civile per non aver impedito il compimento – o aver attenuato gli effetti, se già posti in essere – degli atti dei delegati che siano risultati pregiudizievoli per la Società[6], dei quali erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza.
Il regime di responsabilità civile appena descritto, con alcune differenze, risulta necessario per comprendere quello penale, di cui si dirà a breve.
3. Il ruolo “di garanzia” dei consiglieri privi di deleghe nella giurisprudenza penale
Sulla base di quanto previsto dall’art. 2392, secondo comma, cod. civ., la giurisprudenza penale riconosce uno speciale ruolo “di garanzia” in capo agli amministratori privi di deleghe. La disposizione civilistica citata, infatti, come scritto al paragrafo precedente, attribuisce ai consiglieri non delegati l’obbligo di impedire la commissione di qualunque atto pregiudizievole (atti illeciti inclusi), di cui essi siano a conoscenza, da parte del consigliere delegato. Ciò premesso, l’art. 2392, secondo comma, cod. civ., va letto congiuntamente all’art 40, secondo comma, cod. pen., ai sensi del quale «2. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».
Pertanto, nel caso in cui i consiglieri privi di deleghe vengano a conoscenza del compimento di un atto gestorio illecito da parte del consigliere delegato e decidano di non attivarsi per impedirlo, essi ne risponderanno in sede penale allo stesso modo del consigliere delegato che lo ha commesso. A riguardo, pare opportuno sottolineare come, differentemente dal piano della responsabilità civile, la mera conoscibilità dell’atto illecito attraverso un corretto esercizio dei propri poteri di indagine pare irrilevante ai fini della responsabilità penale del consigliere privo di deleghe. In sede penale, infatti, il consigliere non delegato risponderà dell’atto illecito del delegato solo nel caso in cui sia data dimostrazione che egli era effettivamente a conoscenza del compimento dello stesso e non si sia attivato per impedirlo. Sul punto, la giurisprudenza della Suprema Corte è granitica nell’affermare che «La posizione di garanzia e l’obbligo di intervento del consigliere non operativo postulano, dunque ai fini di un’affermazione di responsabilità a norma del combinato disposto dell’art. 40 c.p., e art. 2392 c.c., la rappresentazione dell’evento nella sua portata illecita e la volontaria omissione nell’impedirlo, per cui non è responsabile colui che non abbia avuto la rappresentazione del fatto pregiudizievole, quantomeno sotto il profilo eventuale, accettandone il rischio […]. D’altro canto la rappresentazione eventuale dell’evento e l’accettazione del rischio deve risultare, al di là ed eventualmente in contrasto con le informazioni date dall’amministratore e/o dagli amministratori operanti, da segnali perspicui, peculiari nonchè anomali»[7].
Quanto affermato, peraltro, implica un’ulteriore considerazione: se, da un lato, la mera conoscibilità dell’atto illecito è irrilevante ai fini della responsabilità penale del consigliere privo di deleghe; dall’altro, egli non può sottovalutare eventuali “segnali d’allarme” che lo mettano in guardia sull’eventuale compimento dell’atto illecito. Anche in tal caso, dovrà essere data dimostrazione che egli sia effettivamente venuto a conoscenza di detti segnali: «ai fini della responsabilità penale dell’amministratore privo di delega […], non è sufficiente la presenza di dati (c.d. segnali d’allarme) da cui desumere un evento pregiudizievole per la società o almeno il rischio della verifica di detto evento, ma è necessario che egli ne sia concretamente venuto a conoscenza ed abbia volontariamente omesso di attivarsi per scongiurarlo»[8].
Pertanto, nel caso in cui sia dimostrato che il consigliere non delegato sia venuto a conoscenza non già del compimento dell’atto illecito ma di segnali tali da poterlo mettere ragionevolmente in allerta sul suo compimento e li abbia volontariamente ignorati, egli nondimeno risponderà dell’illecito compiuto dal delegato in sede penale. Peraltro, come anticipato, sarà in capo all’accusa provare che il consigliere privo di deleghe sia venuto a conoscenza di detti segnali d’allarme. Infatti, «occorre per l’accusa la dimostrazione della presenza di segnali perspicui e peculiari in relazione all’evento illecito, nonchè l’accertamento del grado di anormalità di questi sintomi, non in linea assoluta, ma per l’amministratore non operativo (oltre, per quanto dianzi detto, la prova della percezione degli stessi in capo agli imputati)»[9].
Per completezza, poi, pare opportuno segnalare come la conoscenza del compimento dell’atto illecito o dei “segnali d’allarme” possa provenire anche da canali d’informazione diversi rispetto alla sede consiliare: infatti, «nel contesto della responsabilità dell’amministratore non operativo, […] [l]a penale responsabilità, invero, prescinde dalla modalità e tipologia del canale conoscitivo, mentre postula la dimostrazione di un effettiva ed efficace ragguaglio circa l’evento oggetto del doveroso impedimento: non può ragionevolmente assumersi che l’unico canale di conoscenza dell’amministratore, rilevante ex art. 40 cpv. c.p., si riduca all’informazione resa in seno all’ambito del consiglio di amministratore o al solo ambito societario. Una volta dimostrata la conoscenza del probabile evento pregiudizievole, connesso alla situazione offerta all’attenzione del soggetto garante, si prova l’esistenza del suo dovere di scongiurare lo stesso, non essendo stati ridotti gli obblighi e le responsabilità dell’amministratore (verso la società ed i creditori) volti a prevenire pregiudizi da condotta illecita. Tanto è dato riscontrare nel contesto dell’art. 2392 c.c., comma 2 (che al proposito, sia pure nei limiti della disciplina del nuovo art. 2381 cod. civ., risulta immutato) che sancisce la responsabilità verso la società per quanti, “essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli”, non si siano attivati per impedire il compimento dell’evento pregiudizievole, norma che non precisa la modalità dell’acquisizione dell’informazione sul fatto illecito o ingiustamente pregiudizievole. L’amministratore (ed è indifferente che egli sia o meno dotato di delega) è penalmente responsabile (art. 40 c.p., comma 2) per la commissione dell’evento che ebbe a conoscere (anche se al di fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non scongiurò»[10].
Da quanto scritto finora, emerge chiaramente come la mancanza di deleghe non esoneri i consiglieri non operativi da una eventuale responsabilità penale per gli atti gestori illeciti del delegato. Essi, infatti, saranno chiamati a rispondere per non averne impedito il compimento laddove ne fossero stati a conoscenza. La responsabilità del consigliere non delegato neppure viene meno laddove esso sieda nel board di una grande Società, caratterizzata da strutture aziendali complesse. A riguardo, la cd. “sentenza Montefibre” ha chiaramente stabilito che, «anche in presenza di una delega di funzioni ad uno o più amministratori (con specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro), la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale complessa ed organizzata, con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attingono direttamente la sfera di responsabilità del datore di lavoro»[11].
Chiarito quindi che i consiglieri privi di deleghe possono essere chiamati a rispondere sia in sede civile sia in sede penale per gli atti di mala gestio o illeciti compiuti dal delegato, si può procedere con l’esame dei profili di responsabilità in capo agli stessi consiglieri non delegati nell’ipotesi in cui essi stessi si ingeriscano nella gestione compiendo in prima persona atti di mala gestio o illeciti o inducendo il delegato al compimento di detti atti.
4. I profili di responsabilità civile dei consiglieri privi di deleghe che si ingeriscono nella gestione della Società
Se gli amministratori sono, «in ogni caso» – come sancito dal secondo comma dell’art. 2392 cod. civ. – tra loro solidalmente responsabili per non aver impedito il compimento di atti pregiudizievoli di cui erano a conoscenza o che potevano conoscere, o per non averne attenuato le conseguenze dannose; logica vuole che essi rispondano della ben più grave ipotesi in cui abbiano posto in essere in prima persona l’atto pregiudizievole o ne abbiano diretto il compimento da parte del delegato. Affermare che gli amministratori non delegati rispondano per non aver impedito gli atti di mala gestio del delegato di cui erano a conoscenza ma non per quelli da essi stessi compiuti, per il semplice fatto di non essere stati delegati al loro compimento; affermare ciò sarebbe illogico e porterebbe ad una ingiustificata compressione della sfera di tutela garantita dal codice civile alla Società danneggiata dalla mala gestio.
Quanto appena affermato trova supporto in un’altra espressione utilizzata dal secondo comma dell’art. 2392 cod. civ.: esso sancisce – come si è detto, come regola generale – la responsabilità solidale dei membri del consiglio di amministrazione salvi i casi di «attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori». L’espressione qui enfatizzata (ossia, «in concreto»), è passibile di due interpretazioni distinte ma che, per i fini che qui ci occupano, conducono alle medesime considerazioni:
a) essa può stare a significare che, ai fini dell’esonero dei deleganti dalla responsabilità solidale per mala gestio dei delegati, è necessario che le funzioni formalmente attribuite a questi ultimi siano dagli stessi «in concreto» esercitate. Se così non fosse, se cioè dette funzioni fossero esercitate dai deleganti o se comunque i delegati fossero soggetti ad una qualche ingerenza di questi ultimi, i deleganti risponderebbero solidalmente con i delegati per gli atti di mala gestio;
b) «in concreto» può, poi, stare a significare che, laddove in seno al consiglio di amministrazione sia previsto e concretamente operativo un riparto di deleghe non formalmente approvato dall’Assemblea dei soci, la responsabilità per un atto di mala gestio non sia attribuita all’intero consiglio ma solo al consigliere o ai consiglieri che «in concreto» siano stati delegati al suo compimento.
Le due chiavi interpretative appena esposte, pur diverse nel loro contenuto, conducono al medesimo risultato pratico per i fini che qui ci occupano: i consiglieri che, pur non essendo “formalmente” delegati, commettano atti di mala gestio saranno chiamati a rispondere in sede civile del compimento degli stessi.
Quanto affermato trova poi conferma nella nutrita giurisprudenza in tema di “amministratore di fatto” (di cui si dirà più approfonditamente nel paragrafo seguente), la quale, ai fini dell’attribuzione della responsabilità al soggetto che abbia compiuto atti di mala gestio, ritiene irrilevante un’investitura formale da parte dell’Assemblea, guardando, invece, al concreto esercizio dell’attività gestoria. Infatti, «[l]e regole che disciplinano l’attività degli amministratori attengono […] non ad un rapporto negoziale ma al corretto svolgimento dell’amministrazione della società e sono, quindi, applicabili anche a coloro che si sono ingeriti nella gestione della società senza avere ricevuto da parte dell’assemblea alcuna investitura, neppure irregolare o implicita»[12].
Come anticipato, questo approccio “sostanziale” è ricavabile dalla giurisprudenza in materia di amministratore di fatto, figura elaborata dalla giurisprudenza penale e successivamente accolta da quella civile e che si caratterizza «per la mancanza di un’investitura formale, cui fa però riscontro, sotto il profilo sostanziale, un’influenza che trascende la titolarità delle funzioni, consentendo all’amministratore di fatto di esercitare, sia pure indirettamente, poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, i quali, quando non si limitano ad agire come meri prestanomi del dominus, concorrono con l’amministratore di fatto nella conduzione dell’impresa sociale, se del caso assumendo collegialmente le relative decisioni, e dandovi esecuzione di comune accordo»[13].
L’amministratore di fatto, quindi, pur difettando della formale investitura di “amministratore” esercita un’ingerenza “sistematica” nella gestione della Società. In sintesi, «[i]n tema di società, la persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza»[14].
La giurisprudenza civile, seguendo l’approccio “sostanziale” della giurisprudenza penale di cui si dirà a breve, assoggetta l’amministratore di fatto allo stesso regime di responsabilità previsto per gli amministratori formalmente investiti della loro carica, con la conseguenza che «le regole che disciplinano l’attività degli amministratori regolano […] il corretto svolgimento dell’amministrazione della società e sono quindi applicabili non solo a coloro che sono stati immessi, nelle forme stabilite dalla legge, nelle funzioni di amministratore, ma anche a coloro che si sono ingeriti nella gestione della società senza aver ricevuto da parte dell’assemblea alcuna investitura, neppure irregolare o implicita. […] [P]ertanto, anche nell’ambito del diritto privato, come in quello del diritto penale e del diritto amministrativo […] i responsabili della loro violazione non vanno individuati sulla base della loro qualificazione formale ma per il contenuto delle funzioni concretamente esercitate»[15].
Come è evidente, la figura dell’amministratore di fatto, di cui sono stati appena riassunti i tratti essenziali, non coincide con quella dell’amministratore privo di deleghe che si ingerisce nella gestione. Essa, tuttavia, risulta fondamentale per ricostruire il regime di responsabilità civile – e penale, come si vedrà a breve – degli amministratori non delegati che dirigano l’attività gestoria del delegato o compiano essi stessi in prima persona e sistematicamente atti gestori.
L’approccio giurisprudenziale che emerge dalla teoria dell’amministratore di fatto, infatti, è quello di non fermarsi ai profili formali del riparto organico ed organizzativo della Società ma di guardare al suo effettivo funzionamento[16].
Pertanto, pur essendo privi di deleghe, i consiglieri che dirigano il delegato nel compimento di atti di mala gestio o che li compiano sistematicamente in prima persona potranno essere chiamati a risponderne ove sia data adeguata dimostrazione che il compimento di detti atti sia agli stessi riferibile. Inoltre, quandanche non sia data prova sufficiente che il compimento degli atti di mala gestio sia ad essi riferibili ma sia dimostrato che detti atti erano da essi conosciuti o conoscibili, essi potranno nondimeno rispondere per il fatto di non averne impedito il compimento o attenuato le conseguenze pregiudizievoli.
Alle medesime conclusioni, mutatis mutandis, si giunge guardando ai profili di responsabilità penale dei consiglieri non delegati che si ingeriscano nella gestione della società e che, di seguito, vengono più approfonditamente esaminati.
5. I profili di responsabilità penale dei consiglieri privi di deleghe che si ingeriscono nella gestione della Società
L’approccio “sostanziale” appena descritto vale anche per la valutazione di una eventuale responsabilità penale degli amministratori privi di deleghe che, ingerendosi nell’attività gestoria, abbiano compiuto atti illeciti, personalmente o dirigendo l’attività del delegato. Anzi, detto approccio è proprio della giurisprudenza penale, la quale, come anticipato, ha elaborato la teoria dell’amministratore di fatto al fine di punire coloro i quali, pur non ricoprendo formalmente la carica di amministratori, si siano inseriti nella gestione della società compiendo atti illeciti. Nella massima esemplificativa di seguito riportata, la Corte di Cassazione si era così pronunciata in tema di reati fallimentari: «Qualsiasi soggetto che di fatto si sia inserito nell’attività amministrativa di una società, poi dichiarata fallita, risponde del reato di cui agli artt. 223 e 216 l. fall., come diretto destinatario delle disposizioni in essi contenute, le quali indicano, tra gli altri, gli amministratori, con riferimento non ad una formale attribuzione di qualifiche, ma all’esercizio concreto delle funzioni che la sostanziano. Ne deriva che l’amministratore di fatto di una società può rispondere del reato fallimentare quand’anche l’amministratore legale della stessa non sia ritenuto colpevole sul punto, dovendosi aver riguardo all’effettivo potere di gestione svolto nell’attività sociale»[17].
Ai fini dell’attribuzione della responsabilità penale, quindi, non rileva tanto la carica formalmente ricoperta dal soggetto esercente l’attività gestoria ma piuttosto il concreto esercizio di detta attività. Emblematicamente, in giurisprudenza si ammette addirittura la possibilità di escludere la colpevolezza del soggetto che pur essendo formalmente investito della carica di amministratore, in concreto, non compia autonomamente alcun atto di gestione: «la qualifica di amministratore formale non comporta un automatico giudizio di colpevolezza […] perché, diversamente, la punizione in base alla qualifica e non in base a fatti specifici, sarebbe in contrasto manifesto con il principio della responsabilità personale di cui all’art. 27 della Costituzione. La colpevolezza del legale rappresentante della società deve essere esclusa, infatti, quando la concreta gestione da parte dell’amministratore di fatto quale dominus della società, imprenditore occulto o procuratore ad negotia sia così complessiva e sostitutiva da ridurre l’amministrazione legale ad un mero atto formale, nominale»[18].
Come scritto al paragrafo precedente, l’analisi che qui ci occupa non riguarda propriamente la figura dell’“amministratore di fatto” posto che i consiglieri non delegati sono investiti della carica di amministratore. Tuttavia, l’approccio giurisprudenziale alla responsabilità penale dell’amministratore di fatto è, anche qui, fondamentale per comprendere a quale regime di responsabilità siano soggetti i consiglieri privi di deleghe ingeritisi nella gestione.
Se, infatti, si ammette la responsabilità per la gestione illecita di un soggetto estraneo alla Società, pare coerente con tale approccio giurisprudenziale ritenere passibile di responsabilità penale l’amministratore che, pur privo di deleghe, abbia posto in essere l’attività gestoria illecita. Non solo: quanto affermato va letto congiuntamente con quanto scritto al terzo paragrafo sulla speciale posizione di garanzia dei consiglieri privi di deleghe; posizione che sarebbe “tradita” dalla commissione di atti gestori illeciti da parte degli stessi.
Anche in tal caso, dovrà essere data adeguata dimostrazione dell’ingerenza dell’amministratore non delegato nella gestione e della riferibilità allo stesso dell’attività illecita. Infatti, «sotto il profilo processuale è necessario accertare gli elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall’organico inserimento del soggetto, quale intraneus che svolge funzioni gerarchiche e direttive in qualsiasi momento dei procedimenti organizzativi, produttivi e commerciali – rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti – in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare»[19].
In conclusione, se è data adeguata dimostrazione che i consiglieri privi di deleghe si siano ingeriti nella gestione e abbiano compiuto atti illeciti o abbiano indotto il delegato a compierne, essi ne dovranno rispondere in sede penale. Nondimeno, nel caso in cui l’ingerenza degli stessi nella gestione non sia sufficientemente provata ma sia provato che essi erano a conoscenza degli atti di gestione illeciti, risponderanno per non essersi attivati per impedirne il compimento.
6. Conclusioni
Alla luce di quanto scritto nei paragrafi precedenti e, in particolare, della giurisprudenza citata, la mancanza di deleghe in capo ai membri del consiglio di amministrazione di una Società per Azioni non va ad escluderne automaticamente eventuali profili di responsabilità civile e penale.
Più precisamente:
i) in caso di atto di mala gestio del consigliere delegato, i consiglieri privi di deleghe potrebbero esserne chiamati a rispondere in sede civile nel caso in cui essi non si siano attivati per impedirlo o per porvi rimedio, sempre che sia dimostrato che ne fossero a conoscenza o avrebbero potuto ragionevolmente venirne a conoscenza;
ii) in caso di atto illecito compiuto dal delegato, i consiglieri non delegati potrebbero essere chiamati a rispondere in sede penale per non averne impedito la commissione laddove sia data prova che essi ne erano a conoscenza e abbiano deciso di non attivarsi;
iii) nell’ipotesi in cui siano gli stessi consiglieri privi di deleghe a ingerirsi nella gestione e compiere, personalmente o per il tramite del delegato, atti di mala gestio, essi ne potrebbero rispondere in sede civile sempre che sia data adeguata prova della loro ingerenza nella gestione. Ove manchi detta prova, i consiglieri non delegati potrebbero essere chiamati a rispondere del fatto di non essersi attivati per impedirne il compimento dell’atto o degli atti di mala gestio, nei termini descritti al punto i); infine,
iv) nel caso in cui i consiglieri privi di deleghe si ingeriscano nella gestione e compiano, personalmente o per il tramite del delegato, atti illeciti, essi ne potrebbero rispondere in sede penale purché sia data adeguata prova della loro ingerenza nella gestione. Ove manchi detta prova, i consiglieri non delegati potrebbero essere comunque chiamati a rispondere del fatto di non essersi attivati per impedirne il compimento dell’atto o degli atti illeciti, nei termini descritti al precedente punto ii).
In conclusione, l’approccio sostanziale della giurisprudenza sembra, in un certo senso, prescindere dal conferimento di deleghe ai fini dell’attribuzione della responsabilità dell’atto gestorio pregiudizievole o illecito, guardando, piuttosto, al suo effettivo autore. La mancanza di deleghe, pertanto, non andrà certo a sollevare automaticamente l’amministratore di S.p.A. rispetto ad eventuali profili di responsabilità.
[1] L’art. 2392, primo comma, cod. civ. così dispone: «Gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori».
[2] Ai sensi dell’art. 2392, secondo comma, cod. civ. «In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose». In ogni caso, ai sensi del successivo terzo comma, «La responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale».
[3] Così Cass. civ., sez. I, sent. 9 novembre 2015, n. 22848, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 3, 2017, II, p. 547.
[4] V., infatti, Cass. civ., sez. II, 26 febbraio 2019, n. 5606, in Diritto Bancario – Giurisprudenza, 10 luglio 2019; Cass. civ., sez. II, 16 luglio 2018, n. 18846, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 1, 2020, II, pp. 87 e ss.; Cass. civ., sez. I, 29 dicembre 2017, n. 31204, in Diritto Bancario – Giurisprudenza, 27 febbraio 2018; e Cass. civ., 5 febbraio 2013, n. 2737, in Diritto Bancario – Giurisprudenza, 7 febbraio 2013).
[5] Così Cass. civ., sez. I, 31 agosto 2016, n. 17441, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 5, 2017, II, p. 841.
[6] Discorso analogo sull’irrilevanza del riparto di deleghe, con i dovuti distinguo dovuti alla diversità della fattispecie, vale anche in tema di responsabilità verso i creditori sociali: v., ad es., Cass. civ., sez. I, 5 settembre 2018, n. 21662, in Diritto Bancario – Giurisprudenza, 29 novembre 2018; e Cass. civ., sez. I, 29 dicembre 2017, n. 31204, in Il Caso, 13 marzo 2019.
[7] Così Cass. pen., sez. V, 3 dicembre 2008, n. 1372, in De Jure; e conformemente, Cass. pen., sez. V, 10 febbraio 2009, n. 9736, in Cassazione Penale, fasc. 3, 2011, pp. 1181 ss.; Cass. pen., sez. V, 5 ottobre 2012, n. 23000, in De Jure; Cass. pen., sez. V, 8 giugno 2012, n. 42519, in Cassazione Penale, fasc. 3, 2014, pp. 1025 ss.; Cass. pen, sez. V, 30 settembre 2013, n. 4028, in De Jure; Cass. pen., sez. I, 27 novembre 2015, n. 12933, sempre in De Jure.
[8] Così Cass. pen., sez. V, 5 ottobre 2012, n. 23000, cit.
[9] Così Cass. pen., sez. V, 4 maggio 2007, n. 2383, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 3, 2009, II, p. 453.
[10] Così sempre Cass. pen., sez. V, 4 maggio 2007, n. 2383, cit., p. 452.
[11] Così Cass. pen., sez. IV, 10 giugno 2010, n. 38991, in Diritto Penale Contemporaneo – Archivio, 9 novembre 2010.
[12] Così Cass. civ., sez. I, 23 aprile 2003, n. 6478, in De Jure.
[13] Così Cass. civ., sez. I, 18 settembre 2017, n. 21567, in Fallimenti & Società, 18 settembre 2017.
[14] Così Cass. civ., sez. I, 1° marzo 2016, n. 4045, in Diritto Bancario – Giurisprudenza, 1 giugno 2016.
[15] Così già Cass. civ., sez. I, 6 marzo 1999, n. 1925, in De Jure.
[16] In tal senso, si v. anche Cass. civ., sez. I, 27 febbraio 2002, n. 2906, in Il Foro Italiano, fasc. 11, 2002, pp. 3156 ss.
[17] Così già Cass. pen., sez. V, 18 maggio 1983, massimata in Cassazione Penale, fasc. 10, 1984, p. 2061; e, conformemente, già Cass. pen., sez. V, 23 maggio 1979; Cass. pen., sez. I, 6 febbraio 1980; Cass. pen., sez. V, 8 ottobre 1982; e Cass. pen., 23 febbraio 1983, tutte in De Jure.
[18] Così Cass. pen., sez. V, 17 gennaio 1996, n. 3333, in Cassazione Penale, fasc. 2, 1997, p. 548.
[19] Cass. pen., sez. V, 16 settembre 2015, n. 1106, in De Jure.
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